Quando Eduardo Scarpetta ebbe notizia di quella bambina abbandonata alla “ruota della Nunziata”, si racconta, si precipitò a recuperarla. Quella bambina si chiamava Maria, ed era sua figlia. Maria nacque nel 1891 da una relazione che Eduardo, già sposato con Rosa De Filippo, intrattenne con Francesca Giannetti, «moglie di un maestro di piano amico di famiglia» – come ci informa Peppino De Filippo. Eduardo, dopo l’abbandono da parte della madre, recuperò la bimba e avviò le pratiche per l’adozione che si risolsero positivamente nel 1894, rendendo Maria legittima figlia di Eduardo Scarpetta e Rosa De Filippo. Scarpetta non era nuovo a questo genere di avventure e la sua fama di don Giovanni è cosa nota. Ciò che stupisce, in questa storia, soprattutto considerando il rapporto che ebbe con altri suoi illustri discendenti, è l’enorme affetto che Eduardo nutrì per questa sua figlia, dal primo giorno, per tutta la vita, tentando in tutti i modi di tenerla stretta a sé. E Maria ricambiò questo amore, l’amore verso un padre che venerava, che adorava e che, forse, sola, riusciva a comprendere fino in fondo. Di tale profondo amore per il padre, di tale intima conoscenza e complicità è completamente intriso il volume che gli volle dedicare: Felice Sciosciammocca. Mio padre.

Dal padre ella ricevette in dono l’intelligenza, l’arguzia, il senso dell’umorismo e del grottesco, così come ci ricorda la preziosa testimonianza di Margot Ricci, sua amica: «A suo padre […] doveva molto. Egli le aveva trasmesso doti di eccezione. Oltre un’intelligenza fuori dal comune, Maria possedeva il senso dell’humor […]. Coglieva immediatamente il lato grottesco di ogni cosa, anche in quelle apparentemente tragiche le quali, stacciate attraverso il crivello della sua intelligente bonarietà, assumevano un aspetto inatteso e originale dal quale scaturiva una irresistibile comicità.»

Dalla sua posizione di figlia privilegiata, aveva potuto spiare, studiare e ammirare quell’uomo che doveva apparire come un gigante buono agli occhi della bambina adorante, una sorta di Dio benevolo e amorevole, che contrasta fortemente con l’immagine del Maestro che altri ci hanno trasmesso, quella di un Dio irascibile e minaccioso, capace di «mettere in soggezione» i presenti con «quel colpetto di tosse cronica […] che annunziava la sua entrata in una stanza».

E dal padre aveva ereditato anche la passione per il teatro, «quello con la ‘T’ maiuscola», come riporta ancora Margot Ricci, tant’è che «per Lei, la vita consisteva in poche, pochissime cose, ma tutte essenziali alla sua esistenza, ed erano: suo marito, sua figlia, la memoria del padre ed il teatro». Eppure, nonostante questa adorazione, questo immenso affetto reciproco, Eduardo Scarpetta chiese alla figlia di rinunciare all’altro suo grande amore, l’unico che potesse competere con la devozione filiale: il teatro, appunto. «– Ed io smisi – Solo chi ha conosciuto profondamente Maria può intendere lo schianto che ha dovuto provare nel lasciare le scene e l’entità del sacrificio richiesto e compiuto senza un gesto di protesta, senza una parola di rimpianto. Ma di questo suo dolore, nulla è trapelato, mai. “Papà” era contento; quest’era, per lei, la sola cosa importante». Eppure quella sua passione, così vitale, così visceralmente radicata in lei, non poté mai sopirsi del tutto. Collaborò, difatti, con alcuni autori, soprattutto con i De Filippo, suoi fratellastri, firmando copioni di spettacoli e riviste portati in scena da questi ultimi; e la sua vena autoriale non venne mai meno neanche in seguito: è un dato di fatto, risaputo ma non largamente conosciuto, che Maria continuò a contribuire con il suo estro alla stesura di numerose opere teatrali anche laddove il suo nome non ebbe a comparire sui testi firmati, invece, dal marito Mario Mangini, in arte Kokasse.

Ma come il nome di Maria Scarpetta, in arte “Mascaria”, scomparve dai cartelloni in favore di altri, è un’altra storia destinata, forse, a non essere mai del tutto raccontata.

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