Petrarca e la terza generazione ermetica: la loro attualità

Se analizziamo con attenzione ed anche curiosità, constatiamo facilmente che la vita, in fondo, è un’attesa della nascita, crescita, lavoro, di un evento, matrimonio,  figli, fino al suo esaurirsi.  Nell’inarrestabile fluire avvertiamo pure la grande precarietà che talora ci sgomenta, ci sorprende, ci fa capire come ciò che “ piace al mondo è breve sogno” (Petrarca).

Nella sua fragilità  può dissolversi in pochi attimi, mentre per edificare occorrono tanti sforzi. Tra il principio e la fine si pone l’attesa, scandita, parcellizzata dallo scorrere ineluttabile del tempo il (“fugit irreparabile tempus”di Virgilio, “cotidie morimur” di Seneca), che la connota di varia carica semantica. Petrarca, primo uomo moderno, quasi frazionava la fuga inarrestabile del tempo, seguita dall’incalzare impietoso della morte (“la vita fugge, e non s’arresta un’ora/E la morte vien dietro a gran giornate”  C,272; “sentio singulos dies  horasque et momenta me ad ultimum urgere”, Familiares XXIV.1; “sento i singoli giorni le ore e i momenti spingere me alla fine della vita”).

Basterebbe guardarsi dentro e intorno per recepire la portata delle sue asserzioni. Non mi pare pertanto eccessivo definire l’attesa condizione esistenziale dalla quale l’umanità intera, e ora più che mai, n’è coinvolta. Non intendo mutare il piano dell’elaborazione; sono partita da Petrarca in quanto ha rivendicato, per primo, l’uomo nella sua individualità, creatività, non sottomesso al dogmatismo teocentrico del Medioevo, ma pervaso dall’ansia, dall’inquietudine dell’ homo novus, nel quale il rapporto presenza-assenza si snoda sul filo del gioco memoriale. Il sentimento e lo stato dell’attesa meritano una trattazione ampia tuttavia non in questa sede per ragioni logistiche; percorrono la parabola di uomini e letterati secondo parametri diversi, dato il  pre-testo ed il contesto ove essi operano. E la visione non perde il suo fascino, concretare l’assenza da tramutare in figura per restituire all’oggi la memoria dell’ieri, aspettando la mutevole mutevolezza del domani. Può muoversi secondo un climax ascendente, dilatarsi in spazi deserti dai quali intravedere misteriose apparenze, penso al capolavoro di Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, o all’assunto della terza generazione ermetica (Betocchi, Bigongiari, Macrì, Luzi, Gatto) i cui esponenti dichiaravano : “Vi amo nell’attesa di una notizia che continuamente ci superi” per quel processo tautologico del fare che ricomincia. Una circolarità di uomini “All’erta nel paese della propria anima”, che mirano alla poesia in sè, come fatto assoluto, ma non astratto, criptico.  Partono solo dalla “consapevolezza dei propri limiti” per quell’incontro di se stessi con gli altri e negli altri. Mi riferisco soprattutto ad Alfonso Gatto poeta, pittore Salernitano scomparso tragicamente nel 1976, legato alla forza dei colori, alla tela di Cézanne : “io sono pazzo di tutti i colori” il loro non era un estranearsi per rinchiudersi nel solipsismo, ma per venire  “al  grado zero della scrittura” rimarcata dalla presenza e contemporaneità degli opposti (“il soqquadro è nel quadro” dice Gatto, e ancora “sei una perenne distrazione in cui mi fisso”).

Dalla assenza di schemi prestabiliti al superamento del dato acquisito per tornare ad essere, in una reiterazione da non intendere come ortus conclusus. Siamo in quell’assedio teso dagli ermetici all’io, al suo manifestarsi per azzerare la scrittura e riempire invece lo spazio silenzioso della pagina bianca (“E bianco bianco è tutto il nostro foglio”), ove esprimere la realtà offerta, sottratta e già restituita. E’ un gioco da azzardo, termine che proviene dall’arabo a z-z a h r, zara, gioco dei dati, quell’azzardo siglato dal presente inesauribile. Essere dunque dentro, fuori, se stessi, per quel movimento di uscire ed entrare incontrando l’altro. La libertà di andar facendo poesia, pur se rischiando, spiandosi, esponendosi. Attesa, Assenza, Assedio, Azzardo le ho definite le quattro A di tale cultura ermetica. Prospettano un modo di essere e di porsi intrinseco ed estrinseco al contempo, il ritrovarsi nell’accadere, nell’iter ininterrotto come stare nel medesimo circolo, con la “chiamata alla presenza” di uomini attuali e integri. Sono poche, lo so, considerazioni le mie, ma dettate dall’economia del discorso. Sono stese, tuttavia, sotto la spinta emotiva di una drammatica fase storica, che tutti vogliamo si ribalti, si ristabilisca nella sua sana e proficua progressione, recuperando i valori del corpo e dello spirito e della dignità violata e offesa dal male. Allora potremo finalmente dire con Alfonso Gatto “mi vedo ilare, colorato…….nella piena libertà di espandermi”.

Condividi