Sua maestà ‘a Pummarola: la più democratica delle regine
Napoli che ci piace, è quella che trasforma il veleno in alimento salutare e medicina curativa, che accoglie dalle terre straniere prodotti “amari e rii”, come il caffè, così definito dal Parini, e ne fa una prelibatezza tutta sua. Si fregia infatti del titolo di capitale d’ ’o cafè, di quella bevanda prelibata da “fare” con il sapiente uso della caffettiera, tutta nostra, e da sorbire secondo le regole delle tre “c”: carico, caldo e comodi.
L’esempio del caffè ci giova questa volta per parlare di una solanacea, che a noi giunse dalle lontane Americhe dei rituali sacrifici umani e assolutamente non commestibile. Considerata a torto o a ragione velenosa e coltivata come pianta ornamentale, nelle nostre terre felici, perché veramente fertili, prese il nome di pomodoro e diede vita ad una fiorente produzione, che, sapientemente commercializzata, estese gli orizzonti della nostra esportazione industriale al mondo civile.
Per grazia di Dio e volontà di tutte le genti dotate di pregiate papille gustative, ‘a Riggina Pummarola e le sue madamigelle, le conserve e le salse di varietà qualificate, furono benvenute e ricevute con i dovuti onori nei nobilissimi reami, ma non sdegnarono di essere accolte nelle case degli umili sudditi buongustai. Chi dava il benvenuto alle nostre divine pummarole, sapeva che avevano per consorti i mai uguagliati maccarune. Mai viste unioni coniugali così indissolubili, mai sentito parlare di separazioni e neppure di divorzi tra le paste alimentari e le passate veraci, i pezzettoni, i pelati rosso fuoco e le odierne novità che hanno, per ragioni igieniche, emarginato ‘o buattone, quella salsa di pomodoro densissima, che i salumieri esponevano all’aria aperta e azzeccavano sulla carta oleata per servire i clienti, vogliosi di dare sapore più intenso al robusto ragù domenicale. Dal mio volume Pane e Pummarola, edito dall’Istituto Grafico Editoriale Italiano, che ha ospitato forti pittori e poeti napoletani, cito qualche verso della poesia dell’indimenticabile Raffaele Novellis, che riprende il titolo della pubblicazione, e non necessita di commento: M’aggio schiattato quatto pummarole/ ‘ncopp’’ a ‘nu cuzzetiello ‘e pane ‘e grano:/ na ponta d’aglio,’nu felillo d’uoglio, nu pizzeco d’arecheta e de sale./ Che bella marennella m’aggio fatto…
Una delizia incomparabile, ignota ai rinomati pasticcieri, da assimilare solo ad un bacio di una fanciulla tutta sentimento, profuso tra un soave pizzicore sulle labbra e quel gusto di sale che ha sapore d’innocenza e d’onestà. Possiamo vantarci di chi ci insegna a dire, “a lengua nosta” l’indicibile che solo la poesia esprime compiutamente. E po’? Chi potrebbe dimenticare la canzone dedicata a Miss Pummarola, ‘a meglia d’’e ffigliole, le cui mosse erano appunto condite c’’o zuco ’e pummarola e che affermava: iso’nata troppa bella e ch’aggia fa’,.. il giorno in cui io sbocciò, San Luca s’’è spassato a me pitta’. Tutto questo per anticipare la leggenda del ragù.
23.11.2020