La cultura tra il “martello” e la “danza”

Il singulto parossistico antiperistaltico è quella contrazione ripetuta e involontaria del diaframma che può ripetersi più volte al minuto e per la quale non esistono cure efficaci se non controversi e dibattuti rimedi casalinghi.

In altre parole: il singhiozzo è qualcosa di fastidioso, prevenirlo è impossibile e l’unica cosa sensata da fare è imparare a gestirlo nel migliore dei modi.

È un fatto acclarato.

Allo stesso modo, già sul finire di questa lunghissima primavera, quando si cominciavano ad allentare le restrizioni messe in atto per preservare la salute pubblica dal COVID, nella comunità scientifica circolavano analisi e previsioni su come sarebbero andate le cose nella seconda parte dell’anno, una volta che la curva dei contagi si fosse attestata entro livelli accettabili.  Difatti dopo il picco -indicato anche “Martello”, “the Hammer”- che ha messo a dura prova l’intero sistema Paese, era stato previsto un lungo periodo di assestamento -chiamato “Danza”, “the Dance”- nel quale periodi di crescita del numero di casi rilevati si sarebbero alternati a periodi che ne avrebbero visto la riduzione. Queste due fasi della danza, si supponeva già allora, sarebbero state accompagnate rispettivamente da nuove restrizioni e nuove riprese, procedendo, quindi a singhiozzo.

Era prevedibile e infatti, è successo.

Ma come stiamo vivendo la tanto attesa “ripartenza”?

La sensazione è che si navighi a vista, che si sia voluto aspettare fino all’ultimo momento per decidere il da farsi sperando che le cose si risolvessero per inerzia, confidando anche in quel po’ di fortuna che non guasta mai. È comunque opportuno ribadire in maniera chiara e netta che la gestione di una pandemia non è cosa semplice e che, molto probabilmente, nessuna formazione politica sarebbe stata capace di agire senza commettere errori o incappare in critiche e polemiche da parte delle opposizioni che, forse poco correttamente, non disdegnano l’utilizzo del fango per conquistare una manciata di voti in più e screditare gli avversari.

Ma tutto quel che sta accadendo all’inizio di questo autunno era stato ampiamente previsto. Ed era prevedibile perché, in una situazione di emergenza come questa, tutte le storture, le mancanze e le contraddizioni che di solito complicano la vita dei cittadini, non possono che emergere prepotentemente da una quotidianità distorta che non può far altro se non restare paralizzata e bloccarsi, mandando in crisi il sistema.

Basti guardare la situazione della Scuola, settore trascurato e spesso avvertito dalla società come qualcosa di avulso, uno spreco di denaro. Basti guardare la situazione del trasporto pubblico nelle maggiori città italiane, specie quelle del centro sud, dove il ritorno di lavoratori e studenti alle proprie mansioni non ha fatto altro che creare file lunghissime per l’accesso ai mezzi, nei quali non è possibile rispettare alcun distanziamento, nonostante le statistiche mostrino un numero di utenti comunque diminuito rispetto all’anno precedente. Sono problemi atavici, che l’Italia, e specie il Sud, si è trascinata dietro per anni perché, alla fin fine, basta metterci una pezza.

E il capoluogo campano è un po’ il simbolo di tutto questo: in fondo è sempre bastata solo un po’ di pioggia per mandare in tilt l’intero traffico cittadino, con strade che si trasformano in fiumi e metropolitane di nuova costruzione che si allagano interrompendo sistematicamente le tratte.

E i contagi aumentano, le scuole chiudono, le persone finiscono in quarantena.

Era prevedibile, ma i fattori da prendere in considerazione sono molteplici, non ultime le pressioni delle spinte complottiste, quelle manifestazioni di mancanza di spirito critico che in questi anni stanno mettendo a dura prova non solo le nostre istituzioni, ma anche la convivenza civile della popolazione: per inseguire questo tipo di consenso, o forse per non perderlo, il coraggio degli ideali viene via via meno e adesso ci troviamo di fronte a situazioni ai limiti del ridicolo e del paradossale, con governatori che emanano decreti che prevedono restrizioni che poi vengono ritirate o contraddette dal governo centrale che poi contraddice se stesso. E allora le cose vanno come possono, vanno come sono sempre andate per mancanza di alternative, quelle alternative che si costruiscono nel tempo pensando al futuro e non solo all’immediatezza del presente. Sembra caos ma non lo è: si tratta di una mancanza di coesione che fa il gioco delle forze disgregatrici presenti all’interno del Paese.

Ma non è questo il punto.

Il punto è quale posizione occupi la Cultura all’interno di tutto questo.

La Cultura sta a guardare.

La mancanza di programmazione alla quale si è accennato coinvolge anche l’intero settore della Cultura che è, anzi, forse uno degli esempi più eclatanti di questa debolezza, di questa forma mentis, e più di tutti gli altri aspetti del vivere civile ne risente e ne sta soffrendo. Ad aggravarne la posizione in questo particolare periodo è anche la caratteristica intrinseca e fondamentale dell’Arte d’essere materia viva e che per questo ha bisogno di continui scambi, di vivere tra le persone, di arricchirsi, di trasmettersi, di correre da un cuore all’altro per trovare rifugio e vita e fiorire. E in un momento nel quale il contatto di cui si nutre l’Arte è severamente vietato -anche perché avvertito come superfluo- questo settore non può che rischiare il tracollo.

Ma è proprio così?

Se è vero che l’Arte è espressione dello spirito umano e che ha la necessità particolare di “essere vissuta”, è anche vero che i mezzi a disposizione di chi produce e usufruisce del prodotto culturale si sono moltiplicati, offrendo un ventaglio di possibilità che, pur non potendo sopperire a pieno alla tangibilità dell’opera, potrebbero risolvere una serie di problematiche legate non solo alla situazione attuale, ma anche allo stato di crisi in cui questo settore imperversa da anni.

Il problema, uno dei tanti, è dunque quello del mezzo attraverso il quale chi produce cultura può portarla al pubblico, in particolare quella resistenza e quella sorta di alienazione rispetto alle innovazioni e alla sperimentazione che caratterizza l’intero settore a tutti i livelli.

Anche questa è, in effetti, mancanza di programmazione: da un lato c’è la resistenza di una parte dei produttori di cultura, dall’altra c’è la mancanza di lungimiranza da parte di chi dovrebbe sostenere il settore fornendo non solo i giusti mezzi agli artisti ma anche, e soprattutto, dovrebbe curare l’educazione e la crescita di un pubblico affamato di Cultura. In effetti, questi tre aspetti sono collegati tra loro e si influenzano scambievolmente. Prova e conseguenza di quanto appena affermato è l’attenzione forzata verso l’aspetto medico, logistico e meramente economico, che sta già spingendo ai margini qualsiasi discorso sopra la cultura, il quale viene visto come subordinato al resto, superfluo, capriccio di quei pochi che vivono fuori dalla realtà, nonostante il ciclico emergere di un certo orgoglio, tipicamente nostrano, per una non meglio precisata cultura italica che è intrinseca in un popolo che non la pratica.  È sempre stato così, ma in questo momento, si rischia di (s-)valutare sulla spinta emotiva qualsiasi argomento che riguardi la cultura e l’intero settore che se ne occupa. Come sempre, questo è un grossolano errore di valutazione, è un fraintendimento del concetto stesso di “cultura”: cultura è tutto ciò che ci circonda, è ciò che gli esseri umani si scambiano tra loro nei rapporti che stabiliscono, la cultura e i suoi prodotti sono ciò che ci intrattiene nel tempo libero, quello che ci spinge ad andare avanti, il metro di giudizio col quale valutiamo le nostre azioni e quelle degli altri. La cultura è espressione di noi stessi, del nostro tempo, è la testimonianza più viva della vita, è ciò che resta, è quel che potrebbe essere. Non coltivarla significa sprecare noi stessi, significa non essere in grado di guardare al di là dell’orizzonte, al di là dei propri limiti, significa vivere in solitudine una vita che è una e che è fatta per essere condivisa. Significa arrendersi, darla vinta a una concezione meccanicistica dell’esistenza che mortifica l’essere umano nella sua essenza.

Significa, significherebbe, che ciascuno di noi è solo, che lasciamo il nostro tempo come un vuoto privo di significato, senza emettere un suono, una nota la cui eco possa giungere lontano e toccare corde di individui simultaneamente vicini e lontani nel tempo come nello spazio.

Una società che non nutre la cultura è una società destinata a disgregarsi perché i legami che tengono insieme gli individui che la compongono sono prima di tutto di tipo culturale e solo in seconda istanza economici. E una cultura viva non mira tanto al ripetersi nel tempo quanto al dialogo, che sia esso al suo interno, tra le varie istanze che la compongono, o con l’esterno.

E non è un caso se la temperie generale di questi anni di crisi vada nella direzione di una chiusura culturale verso l’esterno.

Quindi, per concludere, se vogliamo davvero ripartire, se vogliamo davvero costruire un futuro degno di questo nome, dobbiamo promuovere il dialogo.

Dobbiamo promuovere la Cultura.

10 Settembre 2020

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