Un saluto porta bene anche come semplice augurio di buona salute. Con l’indimenticabile amico Renato De Falco, dopo aver esaminato alcune modalità di salutarsi nel mondo praticabile, scegliemmo un nostro modo di porgerci a vicenda, incontrandoci, un cenno benaugurante, barocco certamente, imperfetto come tutte le cose di questo mondo, ma efficace, desunto dalla tradizione spagnola: salute, denari e tempo di goderseli.

Il buonsenso avverte le concrete difficoltà di mettere insieme e armonizzare queste tre prerogative che si precisano essenziali e  inscindibili per vivere, se non all’altezza dei propri sogni, almeno in una pratica quotidiana di serenità. La consentirebbero i doni naturali, quelli fisici, i mezzi di sostentamento adeguati e il tempo propizio nei percorsi vitali e negli spazi che non risparmiano pietre d’inciampo e incidenti di percorso.

Ci piacque, dunque, come scambio di convenevoli amicali e duraturi, l’espressione  Salud y pesetas, salute e denare, come si sintetizzava a Napoli, dimenticando nella fretta gli auspici per il tempo di poterli utilizzare senza rimpianti. Quando, negli anni lunghi, i nostri incontri si diradarono, il pudore non mi consentì di confessare a Renato che per me le tre auspicate esigenze vitali di cui sopra continuavano a diventare tra loro sempre più dispettose, intolleranti e litigiose. Sto parlando di saluti, perché una telefonata da Londra mi ha richiamato alla dura realtà: il saluto mi era caro e dettato dalle migliori intenzioni, ma la mia risposta, secondo buona norma e tradizione, mi riportava alla dura e intollerabile realtà. How do you do?, è un saluto che va accolto come sollecita domanda: come agisci?, che fai?, sei in condizione di  compiere le azioni richieste dai tuoi impegni? Avrei dovuto rispondere con una bugia e  sarebbe stato poco adeguato un saluto nella nostra lingua: tu come stai? Tra il suo: “dimmi che fai” e il mio: “dimmi come stai”, parlami cioè della tua inerzia, correva un oceano. In realtà eravamo separati da lontane vie terrestri, marine e aeree, ma nonostante la diversità di senso del nostro modo di  salutarci, eravamo entrambi in libertà vigilata: un fare vietato e uno stare obbligato.

Per buona sorte potevamo entrambi, “affetti” dai medesimi interessi culturali, alimentare i comuni bacilli investigativi e, con la pazienza di chi non può fare altro, attendere che il tempo rivelasse il suo volto di galantuomo. Due napoletani che hanno la possibilità di comunicare non rinunciano alla loro lingua, pertanto, dopo aver alquanto tergiversato, seguendo  pensierini in andirivieni, ho subito messo in chiaro: “Nicò, sto aspettanno Godot!”.

Non c’è voluto altro: due pestiferi che da Via Duomo e Piazza Carlo III s’incontravano al Liceo prima e dopo all’Università, hanno prolungato un abbraccio di ideali e pensieri comuni e non mi ha meravigliato se il mio amico, appena placati i soliti fervori con le domande sulla famiglia, figli, amici e conoscenti, sia tornato sulla mia affermazione: A chi staie aspettanno? A Godò! Spiecate bbuono! Obbiccanno! Tu conosci bene tutta l’opera di Samuel Beckett e, anche se sono ricordi lontani, hai avuto tra le mani un mio scritto in cui confutavo  al giudizio comune il convincimento che il forte drammaturgo avesse utilizzato come titolo per la sua opera più conosciuta un’espressione presente nel gergo giornalistico. Altro che gergo…

Ho ricordato a Nicola che, quando ero nel pieno del mio vigore entusiastico, da figlio di Partenope avevo individuato subito i verbi “to go” e “to do”: l’ot finale altro non era che l’inversione del to che, in inglese, indica il verbo. Posto, invertito, in fine titolo, Waiting for godot, quel to, ritrovata la giusta collocazione davanti a go e do, ridava senso all’andare e al fare. Chi va, pensa,si muove, è vivo in metamorfosi e agisce; al contrario lo stare, il sistere, implica una condizione d’incertezza, d’indecisione, di un’assurdità che non appartiene all’uomo di buon volere e di azione responsabile: Napoleone non ha mai aspettato Godot,  come i poveri Vladimiro ed Estragone. Per me quest’ultimo è addirittura extragone, cioè stra-andato, è andato fuori, è fuori. E poi? Ho parlato troppo, mi sono rifiutato di perdere tempo, perché non ne ho da perdere e ho stramaledetto i fanfaroni, gli antagonisti esaltati: nessuno si agita più di chi non conclude niente.

Nicola si è preoccupato per qualche mia eccessiva esternazione e ho girato subito la pizza. Per intenderci, gli ho parlato delle mie Scremature, di quegli esercizi di annotazioni d’insipienza, con o senza conservanti, rimedi antichi a debellar gli eccessi di biliosa accidia. Quella è insopportabile. Alla mia età non è consentito di intrecciare le dita e  attivare i pollici in rotazione. Si può giocare con i corona virus , i rovina corus, il conor varius, anagrammando un pò per celia e un po’ per non scivolare nell’indolenza che fa male al fegato. E Allora? Si indossano abiti curiali per accingersi agli studi seri e indispensabili, poi, per un divertimento che somiglia a uno sberleffo, diventa utile fare il verso alla monotonia delle pubblicità, alle scelte libere cui ci sollecitano quelle emittenti televisive che ci propinano le medesime pietanze fritte e rifritte, al punto che le contorsioni pubblicitarie danzate e cantate sembrano assumere il ruolo dell’intrattenimento benefico mentre i filmati d’annata, perché ricorrenti a balzi da un’emittente all’altra, sono drasticamente da evitare, cambiando canale. E per le raccomandazioni? Esercitatevi a cambiare i loro connotati: diventano accettabili come scremature: “Con bocca e naso monouso coprite i fazzoletti quando tossiscono o starnutiscono: con garbo e con le buone maniere persuadeteli a non comportarsi sconsideratamente”. Basta invertire qualche parolina e il periodo acquista nuovo senso: “Fisici!, evitate i contatti anche nei saluti. Chimici!,salutate con tatti intermittenti le mani aperte nei pugni chiusi. Ragionieri!, ragionate oggi e domani sull’utilità della salute che i cagionevoli salutano senza remissione e senza potersi rifiutare”.

Avevamo iniziato con i saluti e chiudiamo raccordando il cerchio. Tutto questo in attesa di tornare a pensare liberamente, ad andare, a fare, senza l’incubo di virus coronati, inconciliabili con le vocazioni repubblicane che auspichiamo realizzabili.

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