Giovanni Capurro e l’amore sublime: “A Chiarina”

Carducci, innamorato di Lidia, Delia, Lalage, la chiacchierina, se avesse letto senza pregiudizi A Chiarina di Giovanni Capurro, vi avrebbe veramente trovato del nuovo per l’idea amorosa. Può una donna essere gelosa della Poesia che ella stessa ha fatto intuire per illuminazione a chi l’ha posta in cima ai suoi pensieri? L’appassionato amante credeva di essersi innamorato di una donna, mentre invece si è innamorato, grazie  lei, dell’amore elevato alla poesia. Chiarina ha operato un miracolo, ma il dono si ritorce contro di lei: dovrà essere gelosa di se stessa; sarà impotente di fronte alla verità che ha fatto soffrire le donne di sommi artisti. Chiarina è la musa ispiratrice, ma la passione del poeta si sublima, diventa amore per l’amore, e a quello dedica parole ineffabili. I pensieri si trasferiscono in versi e l’innamorato dell’intangibile si ritrova frastornato, affannato da una febbre che in costante accensione sdegna le domestiche contingenze: insegue la trasfigurazione delle umane armonie per varcare l’inattingibile, dove la brama del trasumanare attinge alla felicità contemplativa. Povera Chiarina; gelosa di se stessa si è trasformata nell’Ideale che esige la totale devozione del poeta e lo sollecita a far poesia senza concedergli tregua. Carducci esigeva che da una selva oscura gli italiani, in nome di un passato di ideali d’unificazione, per lingua e leggi gloriose si ritrovassero nella via maestra della grande storia. Giovanni Capurro, socialista, non ignorava questa necessità, ma nella chiaroveggenza che conosce la sorte dei diseredati, soffriva con loro e si rendeva conto che, pur individuando una meta comune, genti diverse, ricche della loro diversità, avrebbero continuato  a portare con loro oltre all’ereditata storia umana, anche i loro modi di vivere, i segni indelebili del martirio quotidiano, la vitale consistenza dei loro sentimenti. Carducci con le odi Barbare, volle venir fuori dell’usata poesia, che abusava di versi fiacchi e ripetitivi, scegliendo la metrica greca e latina per la lingua italiana, e stupì i contemporanei anche con il titolo della raccolta, di grande e originale pregio, che lo impegnò a conciliare due mondi. Solo la consapevole, puntigliosa perizia e la geniale, raffinata sensibilità avrebbero potuto realizzare pienamente un progetto di poesia senza compromessi.

Il vate della terza Italia, che fu carducciana, meritò il successo. Capurro, non certo dotto di greche e latine lettere, ma esperto di musica e del ritmo partenopeo che tutte le lingue assimila e traduce in versi, rispose a Carducci con le Carduccianelle, un titolo in un certo senso ruffiano, concordato con amici desiderosi di consensi, nei ritmi napoletani calibrati istintivamente ad arte proponendo nei contenuti un ben diverso inventario. Le notti insonni erano dedicate alla sua musa sociale, che gli raffinava i sensi e gli rivelava negli echi interiori i drammi della vita nel giro della luna e nell’incontro con il sole. La veglia notturna annotava le necessità del dolore sempre in agguato, i caprici del caso, la pena di chi muore, minuscolo insetto o creatura di più vistose forme, Nel sole il dramma di Napoli si sarebbe diluito nelle scene dei vicoli e delle strade, dove maschere e marionette vanno a fa’ ll’opera, a inventarsi espedienti per sbloccare il lunario.

A noi interessa A Chiarina, ma a beneficio di chi non ha avuto tra le mani Le Carduccianelle di Capurro, sintetizzo come andò a finire. Carducci ricevette il volume, non aveva dimestichezza con la nostra lingua, s’irritò, ma è a dire poco, per quel signore che aveva osato rapidamente e sveltamente  versificare in metrica greca e gli assestò una stoccata irritata: tutta sua è la gloria e il vanto. Chiese poi un’altra copia, cui seguì un laconico : “Grazie” e tutto finì lì.

Ho avuto la fortuna di pubblicare per i tipi dell’Istituto Grafico Editoriale Italiano le Carduccianelle, le ho commentate ad una ad una, le ho prima parafrasate pe renderne il senso accessibile e poi me le sono godute in conversazioni con studenti che accoglievano volentieri un contributo fededegno sulla realtà postunitaria fotografata da un poeta che i più fortunati appellavano:”O povero Giuvanne”,  Un poeta di forte vena realistica, morto in estrema povertà. E. A. Mario lo ricorda come un sognatore, con la testa tra  le nuvole, nutrito d’aria e pago di un po’ di sole. Nell’ultimo viaggio, quasi per dargli un addio,  “quanno ‘o carro scennnette p’‘a Cesaria, nu pianino sunava ‘O sole mio”. Torniamo a Chiarina: la lirica suona come una realtà chiarificante, il vero della poesia che trascende la bellezza e le virtù che ci innamorano, le sublima.

Il poeta si sente rimproverato dalla donna cui ha dato il suo cuore. Chiarina lo accusa di non essere più quello di una volta, di rispondere con feddezza, addirittura infastidito. Dapprima cerca di essere convincente: Chiarina non deve prestare fede a chi ha insinuato nella sua mente dubbi infondati. Subito però confessa di essere frastornato, assillato da mille pensieri,  di avere in cuore un’altra donna. Sarebbe difficile strapparla dal suo petto. Solo Chiarina potrebbe riuscirci, ma l’innamorato, fedele ormai a un’Idea superiore, all’Ideale, mentre sollecita la fanciulla  a farlo, le raccomanda di essere decisa, ma delicata e aggiunge:”Grazie a te le ho dato sonno, anima e cuore. Ecco chiarite le cause dei suoi tormenti, e dei suoi  affanni: è dominato da una febbre continua, da un ribollio irrefrenabile, dall’urlo di dolore e dalla smemoratezza. Chi è innamorato dell’amore si comporta come uno scimunito, rischia la pazzia, ma la colpa è di Chiarina. Con i suoi occhi gli ha aperto il cielo, lo ha condotto in altre sfere e si è svelata: “ Io sono la Poesia. Illuminati d’immenso. Guardami e scrivi”.

 A Chiarina

Tu parle, e dice ca nun so’ cchiù chillo,

ca nun te voglio manco tanto ‘e bene,

ca quase sempe te risponno friddo

friddo, seccato.

Tu parle e dice ca mo vengo a raro,

ca m’ è passsata tutta ‘a gelusia,

ca nun te curo, ca mo penzo a n’ata

femmena certo.

Si’ tu ca dice tutte chesti ccose?

Stu surdiglino dimme chi t’ha fatto?

Iammo, dimmello franco, e tu t’ ‘o cride?

Tu pienze chesto?

Ma nun capisce ca si so’ stunato,

nun è pe niente? Tu nun ‘o capisce

ca io dormo poco? Ca nun trovo pace,

sempe pensanno?

Agge pacienza, perdoname…siente…

te voglio bene, ma pecchè ‘ngannarte?

Nne tengo n’ata,sì, nun è buscia,

scippela ‘a pietto.

Scippela forte, ma… nun ‘a fa’ male:

‘a  puverella nun ce nn’ave corpa:

pe mezzo tuio l’aggio dato suonno,

anema e core.

Guarda,nun vide? Tengo ‘a frevaa ‘ncuollo,

‘na freva ‘nzista: penzarria e screvesse

pure durmenno: siente ccà che fuoco!

Tuoccame’nfronte.

È ‘na carcara: dint’ ’e celevrelle

sento…che saccio…’na cosa che volle;

m’arraggio, strillo, sto’sempe nervuso,

tutto me scordo.

Me so’ addunato ca pare nu scemo,

ca quase quase vaco a fernì pazzo,

ma tu si’ stata ca m’he puosto ‘mpietto

n’atu vrasiere.

Sì, tu si’ stata ca mm’he apierto ‘o cielo

cu st’uocchie ‘nfame, tu me ce purtaste

e mme diciste:- Songo ‘a Puisia-

Guardame e scrive!

Chesto succede a Napule! Se qualcuno ha l’ardire di competere, di mettere a coppa, tentasse; è lecito, è consentito: con Carducci gli attribuiremo il merito della buona riuscita, oppure basterà il silenzio pe  ‘na bona‘mparata ‘e crianza. Angelo Calabrese

NB: Le Carduccianelle di Giovanni Capuyrro furono pubblicate da Luigi PierroTip. Editore nel 1907. Quelle con il mio commento, per i tipi dell’I.G.E,I. videro la luce nel 1999. Qualche studente se n’è avvalso per tesi sulla Napoli, cioè sul Meridione, dell’Italia postunitaria.

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