Ad Aldo Masullo, che lume porta all’universo dei mondi
Che tu sia filosofo per filosofi è innegabile: lo conferma la veggenza che illumina le tue pagine appassionate; in quelle molti semi eletti, di già intensamente vissute intuizioni essenziali, confluiscono nella più recente semina del raccolto delle tue ricerche. Hai voluto che fruttificassero in quel sapere con sapore che sostanzia i doni delle tue produzioni d’idee, proposte nell’incalzare dell’inutile trionfante dovunque all’uomo massa corrisponde il male di massa. Intanto, e questo è grande pregio, tutto tuo, che merita riconoscenza, hai praticato eticamente la personale missione del dotto nell’impegno a non escludere dal dialogo quelli che, facendosi animo, ti interrogavano. In quelle occasioni, ne sono testimone, cercavi di arrivare al cuore degli interrogativi sinceri con le
parole adeguate, ben note a chi è cresciuto tra le esigenze popolari e sa quanto valgano le risposte che s’imprimono nel cuore e nella mente. Come ti ammiravo in quegli accadimenti: eri pura sorgente della parola che non s’affanna ad argomentare, ma diventa opportunità d’esserci tra persone, relazione primaria dell’incontro. Te lo confesso: avvertivo il disagio della mia diversità di eterno elitario apprendista dei costruttori d’umanità che non consentivano accesso all’ignoranza. A te invece era ignoto il “nessuno entri che non sia…” e più volte ti ho ammirato paziente alla saccenza di chi, in virtù dell’essere in carica prestigiosa, per mettersi in mostra, supponendo d’aver inteso, cercava d’inserirsi nei tuoi pacatissimi commenti e ti costringeva alla pausa. Allora mi sentivo ribollire, ma tu, serenamente, ritrovavi il bandolo dall’importuna cesura. Da quella riprendevi, spesso benignamente ignorando la palese ignoranza ostentata nell’intromissione: è capitato più volte. Nei tuoi libri mi sono appassionato, in primis, alla nobile lingua filosofica, cui nessuno fa cenno, che è italiana e traduce dagli etimi, greci, latini e d’altri idiomi, le espressioni specialistiche. Ho amato intanto il tuo dialogo in carne e ossa, il pensiero vivo, sollecitante, vivacemente aperto, che, interrogando, s’interroga e così si fa tempo in cammino. Mi sono accorto che in ben oltre un sessantennio di conoscenza ti sto dando del tu. Non l’ho fatto neppure quando, distintissimo rosso tra la folla, salivi a salti i gradini dell’Università e sempre a salti ne discendevi, sorridendo tra i pensieri ch’erano poesia di valente gioventù. Il mio Maestro d’Umanesimo, da me amatissimo, perché le sue parole, agli altri spesso oscure, erano per me semplicemente illuminanti e il suo immenso sapere reinventava il pensiero gigante, reinterpretandolo, in quei tempi lontani ti additava volitivo, attento alla forgia dei ferri del mestiere, autentica speranza di luce in quel Semenzario, dalla cui riva, luminoso gigante, non vedeva l’ora di tirare su l’ancora. Lo aveva affermato nei versi di Novissima Verba: “ Ho fretta, ho fretta di levar gli ormeggi/ ultimi e uscir da questa morta gora/ dove non trovi nulla, nulla fuora/ che un basso gioco di sinistri armeggi”. Nulla infatti lo richiamava indietro vezzeggiandolo; era stato e restava, comunque, sempre pietoso delle umane greggi avvolte nel mistero: sull’imbarcadero della morte avrebbe continuato ad averlo come compagno ignoto. Sto divagando? In questo dialogo a una voce a chi vuoi che interessi? Qualcuno ha detto ch’eri colmo d’anni e che, sazio di giorni, desideravi riposarti. Per qualche altro, abile a sondare nei fini e non nelle essenze delle cose, era ormai opportuno che il tuo empito, la tua super – intelligenza creativa transitasse nella immensa macchina di trasformazione cosmica. Agli imbecilli del conformismo è ignoto il dentro e il fuori e soprattutto sfugge il concetto di contemplazione: come vuoi che l’umano pathos tocchi chi soffre per le macchine e a quelle affida la sua continuità? Così di conformismo in conformismo si perde la parola e la velocità cataloga e immagazzina i dati della smemoratezza, ingoiano il tempo, cioè la sostanza dell’uomo in transito metamorfico. Sei uscito dal mondo in maschere e tamponi. Dal mondo che ha incolonnato convogli di bare e ha giustificato le scelte di lasciar morire e tentare di far vivere, e non ha ancora concesso legalità all’eutanasia, da una logica d’industria che, in pieno assalto pandemico di virus coronato, assoluto nemico di leggi costituzionali, ha elaborato motori superveloci, da inserire in carrozzerie iperfantastiche, degne di affrontare le nostre miserabili strade fatiscenti. Segno che abbiamo fretta di viaggiare nello spazio-tempo cosmico. Ti do del tu perché ti so fratello innamorato degli effetti epifanici della vita che ci sorprendeva nella stretta di mano, negli sguardi amicali, nel sapore del vino nuovo che dalle terre fertili, strappate alle lave del primordio si distillava e nel brindisi augurale giungeva al palato come misura del fare e grazia particolare. La Natura mirabile cede ai sapori indifferenziati della produzione esasperata nei ritmi e il timore eguaglia, a comando imperioso, il genere umano. Proprio come avveniva agli albori. Niente accade a caso? Se non è così aiutami a capire perché, alla notizia della tua uscita dal nostro mondo virulento, con gesto deciso ho ripreso Nel nostro tempo di Eugenio Montale (Rizzoli, 1972) . Ho cercato il Fascicolo della Nuova Antologia (Dicembre 1975) in cui quel geniaccio di Riccardo Campa propone un dialogo immaginario con il poeta. Ho posto sullo scrittoio Il Tempo e La Grazia del 1995, un tuo capolavoro di chiarezza e tra le pagine commiste ho cercato di coniugare le fonti poetiche, che in circolo si ritrovano anche nei più recenti fortunati testi del fisico Carlo Rovelli: Sette Brevi Lezioni di Fisica, Adelphi, 2014, e L’Ordine Del Tempo, Adelphi, 2017. Insomma la reclusione forzata mi ha aiutato a riflettere sui concetti di progetto e topia, di linguaggio ed esistenza del loro incontro nei luoghi di massima modificazione. L’etica dell’attraversamento giova alla laicità che nel fare progettuale mira a conciliare mistero e certezza? Noi espropriatori di spazio dalla nascita siamo tempo vivente, quantistico, dinamico, probabilistico in costante metamorfosi; abbiamo appreso a trasformare in architettura il tempo e cristallizzarlo nello spazio, ma dove andiamo tra la logica incrollabile e le istanze della vita? Mi sono immerso negli accadimenti che si combinano, nella ostinata persistente illusione di Einstein che nega la distinzione tra passato presente e futuro, ma qui conta il fisico, quando invece nella famosa lettera, che anche tu citi e mira a consolare la famiglia dell’amico Besso, allude alla vita sempre breve e ricca di illusioni: la passione del tempo e il suo fugace sollievo, il trionfo della ragione sua più alta invenzione. Hai ragione: “la dimora propria dell’uomo è la dimora del nomade, non una sede abituale e stabile, non un luogo fisso, ma lo spazio, tutto lo spazio che il suo cammino è capace di esplorare. Il nomade non ha luogo, ha solo tempo”. Nei ritmi di quello dimora propriamente e il nuovo è grazia da accogliere con responsabilità e speranza, che comporta la scelta di ciò che si vuole sperare. Nel mio monologo ho vaneggiato come tutti i danteschi miseri mortali. Ti sorrida la Grazia nell’accesso alla continuità della vita oltre l’orma di cui hai improntato lo spazio del tempo tuo terreno. Oltrepassando l’irreversibile, l’antico irremeabile, ti sia luce perenne di conoscenza il tempo che ti fluisce tra novelle mani e dai guizzi degli occhi ornati da quei sopraccigli nidi di pensieri, restii a volare, saettino novelle intuizioni: che tu sia fermo in vaste metamorfosi, non so neppure immaginarlo. Se come spero, sei andato a farti luce dialogante: quello è il tuo mestiere. A proposito non so esprimerti il godimento cui ho attinto, leggendo e rileggendo il tuo Piccolo Teatrino Filosofico. Continuo ad offrirlo agli amici e mi va di aggiungere alla invariata formula: sit donum gratum, sicut libenter datum, che tu non sarai mai vento fumoso, ma sei nell’aria che ancora si respira. Conservati alla speranza con la medesima cura con cui custodisco le tue parole. Fraternamente.